Pubblichiamo l’Editoriale del Presidente del COMES Dott. Claudio Becorpi, Dirigente Medico DEU – 118 presso l’Asl 10 di Firenze. L’articolo è estratto dal sito dell’associazione ed è reperibile qui.

Ecco a voi il testo: Medico e infermiere: quali competenze in emergenza? L’avvento delle professioni sanitarie e delle relative lauree brevi ha suscitato non pochi dubbi negli addetti ai lavori, compreso quello che prima o poi si potesse arrivare ad una laurea breve in medicina e chirurgia. La pletora medica che per anni ha afflitto la nostra professione provocando disoccupazione e sottooccupazione del medico ha cambiato rotta, trasformandosi oggi in una carenza di professionisti a causa della quale sembrerebbe inevitabile l’aprirsi di nuovi spazi professionali. In alcune regioni si sta già tentando di colonizzare l’area medica, consentendo, attraverso specifici protocolli, agli infermieri del pronto soccorso e del 118 di eseguire atti propriamente medici. Lungi da me il non tenere in considerazione le nuove potenzialità infermieristiche (laurea breve e master), ma credo che confondere i ruoli e le correlate responsabilità non aiuti né il medico, né l’infermiere né tanto meno il paziente.

La legge 42/1999 ha posto alla base dell’esercizio professionale infermieristico tre criteri guida ben precisi e un limite dai contorni forse un po’ meno precisi. L’infermiere deve quindi agire in base ai dettami del profilo professionale, ex DM 14 settembre 1994, 739, al contenuto degli ordinamenti didattici di base e post base e del codice deontologico. Il limite posto dalla legge stessa è dato dalle “competenze previste per la professione medica”, ovvero dall’atto medico, che la UEMS ha così definito nel 2006: “L’atto medico comprende tutte le attività professionali, ad esempio di carattere scientifico, di insegnamento, di formazione, educative, organizzative, cliniche e di tecnologia medica, svolte al fine di promuovere la salute, prevenire le malattie, effettuare diagnosi e prescrivere cure terapeutiche o riabilitative nei confronti di pazienti, individui, gruppi o comunità, nel quadro delle norme etiche e deontologiche. L’atto medico è una responsabilità del medico abilitato e deve essere eseguito dal medico o sotto la sua diretta supervisione e/o prescrizione”. Pertanto se il concetto di atto medico è posto come limite all’autonomia delle professioni sanitarie non mediche, stante la definizione di cui sopra, credo che produrre “Procedure infermieristiche” abbia senso solo se commisurate al rispetto dei ruoli e delle funzioni e, comunque, non intese come autorizzazione perpetua a surrogare l’atto medico e quindi anche la figura medica in se e per se.

L’autonomia decisionale per la somministrazione di una terapia non può prescindere da un inquadramento diagnostico. La diagnosi (dal greco dià, attraverso e gnosis, conoscenza), infatti, è la procedura di ricondurre un fenomeno (o un gruppo di fenomeni), dopo averne considerato ogni aspetto, a una categoria. Il termine è frequentemente usato in medicina. Serve a riconoscere una malattia (categoria) in base a dei sintomi o dei “segni” (fenomeni); i primi, manifestazioni soggettive presenti nel paziente, i secondi evidenti anche al medico. L’insieme dei sintomi e segni, di cui alcuni specifici – detti patognomonici – ed altri più o meno generici, caratterizza il quadro clinico di una malattia. L’insieme dei metodi di diagnosi, come è noto, si chiama diagnostica (Il perché di questo richiamo concettuale e puntuale ad alcune definizioni del nostro lavoro si comprenderà nel proseguo dell’articolo ed è comunque finalizzato ad una completa contestualizzazione del punto di vista espresso in queste pagine.) La diagnostica è detta “strumentale” quando si avvale di apparecchiature o strumenti particolari (come accade in ecografia, endoscopia, radiologia, ecc.) e “clinica” (dal greco klìne, letto) quando si basa sull’esame diretto del paziente da parte del medico. Il procedimento diagnostico, come tutti sanno, o dovrebbero sapere, è articolato in momenti diversi: · Anamnesi: indagine sulla storia clinica del paziente, ricostruita interrogandolo direttamente o desumendola dal racconto dei familiari. Serve a raccogliere i dati riguardanti i precedenti familiari e personali oltre che quelli fisiologici e patologici, sia remoti che recenti. · Semeiotica: esame del paziente alla ricerca dei sintomi e dei segni presenti. In questa fase il medico si avvale delle classiche manovre di ispezione, palpazione, percussione e auscultazione. · Valutazione del quadro clinico e comparazione analogica dello stesso a quelli di malattie caratterizzate dai medesimi segni e sintomi. Esiste poi, per coloro che se ne fossero dimenticati, la diagnostica differenziale: discriminazione tra le patologie analoghe che vengono progressivamente eliminate in base alla presenza o assenza di altri sintomi e segni. Una volta raggiunta la certezza di una diagnosi è possibile stabilire se quella malattia è curabile e con quale tipo di terapia.
Il senso critico e costruttivo con cui ho sempre cercato di analizzare gli eventi mi ha spinto, a questo punto, a cercare la definizione di diagnosi infermieristica ed ho trovato quella che sembrerebbe la più accettata: “La diagnosi infermieristica è un giudizio clinico riguardante le risposte della persona, della famiglia o della comunità a problemi di salute/processi vitali attuali o potenziali. La diagnosi infermieristica costituisce la base sulla quale scegliere gli interventi infermieristici volti a raggiungere dei risultati di cui l’infermiere è responsabile”(NANDA, 1990). La diagnosi infermieristica è quindi la dichiarazione di un problema della persona assistita, reale o potenziale, correlato alle motivazioni che lo sostengono; é centrata precisamente sulla persona; è un’espressione scritta con un linguaggio conciso e chiaro; viene formulata sull’insieme dei dati raccolti ed è la base per gli interventi autonomi infermieristici. È una tappa fondamentale per sviluppare ulteriormente il processo di assistenza infermieristica.

Oltre a quanto fin qui riportato, per poter analizzare attentamente la differenza sostanziale tra le definizioni di diagnosi medica e infermieristica, ho cercato ulteriori supporti valutativi e spulciando il nostro codice deontologico al CAPO IV (“Accertamenti diagnostici e trattamenti terapeutici”) all’art. 13 – “Prescrizione e trattamento terapeutico” – leggo: “ La prescrizione di un accertamento diagnostico e/o di una terapia impegna la diretta responsabilità professionale ed etica del medico e non può che far seguito a una diagnosi circostanziata o, quantomeno, a un fondato sospetto diagnostico. Su tale presupposto al medico è riconosciuta autonomia nella programmazione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutico, anche in regime di ricovero, fatta salva la libertà del paziente di rifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso.
Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriato delle risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo criteri di equità. Il medico è tenuto a una adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle reazioni individuali prevedibili, nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente, le sue decisioni ai dati scientifici accreditati o alle evidenze metodologicamente fondate […omissis…].

Per garantire una mia maggior comprensione del problema ho inoltre analizzato anche il Regolamento concernete l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere (DM 739/94) dove all’art. 1 è scritto:
1. E’ individuata la figura professionale dell’infermiere con il seguente profilo: l’infermiere è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale è responsabile dell’assistenza generale infermieristica.
2. L’assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l’educazione sanitaria.
3. L’infermiere:
a) partecipa all’identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività;
b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi;
c) pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico;
d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico – terapeutiche;
e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali;
f) per l’espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell’opera del personale di supporto;
g) svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie
pubbliche o private, nel territorio e nell’assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero – professionale.

Da quanto premesso e da un attento esame della legislazione vigente non mi sembra, di fatto, che la figura professionale dell’infermiere possa intendersi come sostitutiva di quella medica né tanto meno interscambiabile, ma piuttosto complementare; infatti ritengo che il miglior livello assistenziale sia costituito da medico e infermiere che operino congiuntamente, integrando le loro professionalità, proprio come scritto nell’Articolo 14 del Codice deontologico infermieristico che recita: “L’infermiere riconosce che l’interazione fra professionisti e l’integrazione interprofessionale sono modalità fondamentali per far fronte ai bisogni dell’assistito”. Purtroppo però sono sempre più numerosi gli esempi di “fughe in avanti” specialmente nell’ambito del servizio 118, le quali prevedono l’utilizzo dell’infermiere in totale autonomia nell’emergenza e di conseguenza la possibilità per quest’ultimo di compiere azioni terapeutiche che prevedono a monte una diagnosi; tale scelta porta inevitabilmente ad individuare i termini di un abuso della professione medica e non credo vi possano essere attenuanti al riguardo, in quanto, per effettuare diagnosi e terapia, ancora oggi ci vuole una laurea specifica che, guarda caso, non é in scienze infermieristiche. Non è certo con il far fare ciò che non compete che si rende una professione importante e specifica, a maggior ragione nel settore sanitario.
Tuttavia la professione sarà sicuramente da incentivare, ma non certo con un cammino così sconsiderato e fuori da ogni logica, come quello di imitare il medico non avendo a monte la formazione adatta, né tantomeno con il ricorso ad artifizi, che sanno molto di populismo, come quelli di assegnare mansioni improprie facendo credere agli infermieri di essere già medici. Tutto questo, infatti, non potrà portare all’ottenimento di meriti che possano affrancarli dal supporto della professione medica. Buon senso vuole, senza guerre di religione, che si debba lavorare insieme, ma nel più assoluto rispetto reciproco dei ruoli. Continuare a fingere di non vedere o ancora peggio ad avallare certi comportamenti equivale a cantare il “de profundis” per la professione medica.
Credo, in conclusione, che si debba, ad ogni livello, porre in essere un’intesa ed una collaborazione nuova, che miri a determinare con chiarezza ruoli e funzioni, attivando un mansionario nuovo e adatto alle realtà lavorative contemporanee, che non spenga le legittime aspirazioni degli infermieri, ma che punti a rendere facile il lavoro fra diverse professionalità nel rispetto dei ruoli e delle priorità; tutto questo senza confusione e con la massima trasparenza, altrimenti sarà solo anarchia.

Dott. Claudio Becorpi Dirigente Medico DEU – 118 Asl 10 – Firenze Presidente C.O.M.E.S.
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